di Giuliano Esposito
1] introduzione
L’andamento altalenante della giurisprudenza di legittimità offre, in materia di relazioni tra i contratti di leasing e la dichiarazione di fallimento del conduttore, spunti di riflessione, stante attualmente ancora oggi, l’assenza di una disciplina organica del contratto di leasing.
La giurisprudenza di legittimità distingue le due figure a] del contratto di leasing di godimento, quindi senza effetti traslativi a monte, e b] invece il contratto di leasing con effetto traslativo, relativo a beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per il riscatto e i cui canoni scontano anche una quota di prezzo in previsione del successivo acquisto, la cui normativa che si rinviene nell’art. 1526 C.C., in materia di risoluzione del contratto, avrebbe carattere inderogabile.
In materia fallimentare si rinviene l’art. 72-quater, che ha dettato un’unica disciplina per la locazione finanziaria, valevole sia per il leasing di godimento che per quello traslativo.
La giurisprudenza tuttavia ha subito più mutamenti in un brevissimo lasso di tempo.
Si ha un primo arresto con la ordinanza emessa dalla sez. IV della Cassazione, del 17.04.2019, n. 10733, nella quale non si è ritenuto dirsi superata sia la tradizionale distinzione che le differenti conseguenze che ne derivano, quando si è al cospetto di una risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore ( in genere ricorrendo la clausola dell’art. 1456 c.c.).
L’interpretazione
fornita è stata quella secondo cui la
disposizione richiamata dalla legge fallimentare si applica ad una situazione
particolare (i.e. scelta del curatore di sciogliersi dal contratto pendente) e
la sua disciplina non avesse incidenza al di fuori della materia fallimentare e
dei rapporti pendenti.
Un secondo arresto lo rinveniamo nell’immediato successivo, e questa volta la Suprema Corte, (sentenza del 10.07.2019, n. 18543), ribalta solarmente il precedente orientamento richiamando l’art. 1 L. 124/2017 che, introducendo una definizione organica di leasing finanziario, ha dettato una compiuta disciplina relativa a presupposti, effetti e conseguenze della risoluzione per inadempimento.
Si assiste così ad
una tipizzazione della locazione finanziaria
quale fattispecie negoziale autonoma, distinta dalla vendita con riserva
di proprietà, disattendendo il tradizionale indirizzo giurisprudenziale di
distinzione tra i 2 tipi di leasing.
Il terzo arresto è fornito dalla Cassazione sempre dopo pochi mesi, questa volta con la sentenza 24.01.2020, n. 1581.
La Suprema Corte torna all’orientamento tradizionale confermando che la risoluzione del leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore è disciplinata dall’art. 1526 C.C., non incidendo sull’applicazione di tale ultima disposizione l’art. 72-quater L.F., norma eccezionale disciplinante il diverso caso di scioglimento.
In ossequio al vigente orientamento, deriva che al leasing con effetto traslativo si deve applicare per analogia, la disciplina dell’art. 1526 C.C. tipico della risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà quando ricorre l’inadempimento dell’utilizzatore.
Del che l’equo compenso spettante alla società di leasing per l’uso della cosa da parte dell’utilizzatore dovrà comprende la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento derivante dallo stato d’uso non più pari al nuovo e dal logoramento per l’uso.
Non vanno conteggiati invece il mancato guadagno e il risarcimento del danno che può derivare da un deterioramento anormale della cosa.
Dunque in caso di risoluzione per inadempimento, ed in genere stante la clausola ex art. 1456 c.c., la società di leasingnon potrà chiedere l’intero importo del finanziamento e trattenere la proprietà del bene nemmeno prevedendo una clausola penale ad hoc, attribuendosi vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla regolare esecuzione del contratto.
Alla data della risoluzione essa potrà solo trattenere il bene, restituendo i canoni già corrisposti al netto dell’equo compenso dovutogli per l’utilizzo del bene stesso (non ricomprendente anche la quota destinata al trasferimento finale del bene).
2] In materia di bancarotta.
In tema di bancarotta per distrazione di beni ottenuti in «leasing», ai fini della configurabilità del reato in capo all’utilizzatore poi fallito, non è necessario che alla data del fallimento il contratto sia in essere, anche con canoni non pagati.
Non è neanche necessario che vi sia stata la antecedente risoluzione ed il bene sia stato richiesto in restituzione da parte delle locatrice/proprietaria.
In materia penal-fallimentrare ciò che conta, sempre in ossequio al disposto dell’art. 216 l.fall., è che il bene, entrato in qualche modo nel patrimonio aziendale, non venga rinvenuto dal curatore alla data successiva al fallimento, e né vengano fornite documentalmente giustificazioni circa la diversa destinazione dello stesso bene ad opera del fallito.
Dunque deve riscontrarsi che tali beni fossero nella effettiva disponibilità del fallito, in conseguenza dell’avvenuta antecedente consegna, e che di essi vi sia stata appropriazione, non rilevando la tipologia del contratto di «leasing» (traslativo o di godimento).
Si esprime così la giurisprudenza della Cassazione Penale (richiamiamo tra tante, la sentenza n. 44898 del 2015) ormai in costante orientamento.
In altre parole, il punto è se i beni oggetto del contratto di locazione finanziaria siano mai entrati, di fatto, nella sfera di disponibilità della società fallita, a seguito di consegna.
La configurabilità del reato di bancarotta per distrazione postula, infatti, secondo tale orientamento, che i beni non rinvenuti in sede di inventario siano entrati realmente nella sfera patrimoniale della società fallita, così che possa ipotizzarsi quel distacco ingiustificato che integra sul piano oggettivo la fattispecie incriminatrice.
Nel caso di specie, al fine di verificare la consumazione del reato fallimentare, quel che rileva, quindi, per la Corte è la disponibilità di fatto, in capo al soggetto utilizzatore, dei beni in leasing non rinvenuti in azienda, indipendentemente, nel caso concreto, dalle scelte del curatore di subentrare o meno nel contratto di leasing provvisoriamente sospeso ex art. 72 L. Fall.
Infatti, l’art. 72-quater comma 2 L. Fall. prevede espressamente che, in caso di scioglimento del contratto, il concedente a fronte della restituzione del bene è obbligato a corrispondere alla curatela la differenza tra la maggiore, eventuale, somma ricavata dalla vendita del bene, ovvero da altra allocazione dello stesso, a valori di mercato, rispetto al residuo credito in linea capitale vantato dal concedente per il mancato, eventuale, pagamento dei canoni di leasing.
Pertanto, la distrazione (o dissipazione), necessariamente dolosa, del bene in leasing da parte dell’utilizzatore non solo grava la curatela del costo economico derivante dall’inadempimento contrattuale dell’obbligo di restituzione ma la priva, altresì, di tale valore economico con integrazione del reato fallimentare.
In altre parole, l’art. 72-quater L. Fall. attribuisce all’utilizzatore un diritto soggettivo economicamente apprezzabile, componente del patrimonio dello stesso e, quindi, possibile oggetto del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva per la consumata lesione dell’interesse alla garanzia patrimoniale dei creditori (tutelata ex art. 2740 c.c.).
Secondo orientamento oramai costante della Corte di Cassazione, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, “in caso di bene pervenuto all’impresa a seguito di contratto di “leasing”, qualsiasi manomissione del medesimo che ne impedisca l’acquisizione alla massa o che comporti per quest’ultima un onere economico derivante dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione, integra il reato poiché determina la distrazione dei diritti esercitabili dal fallimento con contestuale pregiudizio per i creditori a causa dell’inadempimento delle obbligazioni assunte verso il concedente”. (Cass., Sez. V Penale, 26 Ottobre 2018, n. 55859)
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, a nulla rilevano le scelte negoziali del curatore fallimentare in ordine alla possibilità di subentro nel contratto di leasing ai sensi dell’art. 72 L.F. Invero, l’art. 72, secondo comma, L.F. prevede espressamente che in caso di scioglimento del contratto di leasing, il concedente, che ha diritto alla restituzione del bene, è tenuto a versare alla curatela fallimentare la differenza (eventuale) tra la maggiore somma ricavata dalla vendita del bene ovvero da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al residuo credito vantato dal concedente in linea capitale per il mancato (eventuale) pagamento del canone di leasing.
3] conclusioni
Ne consegue che l’appropriazione illecita del bene concesso in leasing da parte dell’utilizzatore comporta un evidente e innegabile pregiudizio economico per il ceto creditorio, che non consiste in se nell’appropriazione del bene ( che infatti non è della fallita bensì di proprietà della concedente), ma è determinato, da un lato, dal costo economico insorgente per l’obbligo di restituzione al concedente del bene oggetto in leasing e, dall’altro lato, dalla perdita del credito previsto ex art. 72, secondo comma, L.F. (Cassazione Penale, Sez. V, 17 aprile 2018, n. 21933 ).
Ciò che andrà valutato attentamente dalla difesa, è la corretta individuazione del credito – determinato rigorosamente ex art. 72/quater l.Fall. – che la curatela assume essere andato disperso, a seguito del mancato rinvenimento del bene oggetto di contratto di leasing, quand’anche antecedentemente risolto.
rilasciato in stampa il 23.03.2020